C’erano altri come noi
Le storie della storia
Di polvere e di gloria
Uomini come noi
Ci furono degli altri poi
Storie senza una storia
Vite senza memoria
Uomini e non eroi
Prendimi le mani
Parla più che sai
Giura che domani
Tu ci sarai
Dammi le tue mani
Che ti porterò
Più lontano che potrò
Ci sono altri come noi
All’alba di ogni storia
Tra pace e sparatoria
Uomini come noi
Stringimi le braccia
Dimmi chi eri tu
La tua faccia
Non mi lasci mai più
Aprimi le braccia
E ci lascerò
Tutto quello che io ho
Un azzurro lungo un sogno
Che ci ha fatto vivere
Come un urlo in mezzo al cielo
Vola e va da me a te
E altri ancora come noi
Saranno nuova storia
Di resa e di vittoria
Uomini e forse eroi
Toccami sul cuore
Spiegami com’è
Che si nasce e vive
e muore perché
Tienimi nel cuore
E saprò così
Che vivrò per sempre lì
Un azzurro lungo un sogno
Che ci ha fatto vivere
Come un urlo in mezzo al cielo
Vola e va da me a te
Quell’azzurro lungo un sogno
Vola e va da me a te
Un azzurro lungo un sogno
comincio' per me
del dicembre dell' '81
volo' de me a te
fu davvero uno strano segno
forse fu un caso o forse no
che piano piano parti' qualcuno
con un alè-o o'
ALÈ-O O' ALÈ-O O' ALÈ-O O' ALÈ-O O'
un azzurro lungo un sogno
continuo' cosi'
nei concerti e nelle partite
per ritrovarci li'
fu come un patto
fu come un pegno
per dire ancora ci sarò
quando uniremo le nostre vite
in un alè-o o'
ALÈ-O O' ALÈ-O O' ALÈ-O O' ALÈ-O O'
e quell'azzurro lungo un sogno
è tornato qua
in questa estate del 98
fino all'eternità
e in una sera di un 6 di giugno
canta più forte che si può
sapendo che non si è mai interrotto
il nostro alè-o o'
ALÈ-O O' ALÈ-O O' ALÈ-O O' ALÈ-O O'
Tutto l'azzurro sia con te piu' che un cielo puo' dare
piu' libero del mare quando d'azzurro e'
Tutto l'azzurro sia per te piu' ferro di una spada
piu' asfalto di una strada per quanto azzurro c'e'
Oltre l'orizzonte che hai di fronte tu
dentro acqua di fonte giovanne e blu quando ad occidente
un cuore ardente giu' cade e non si sente piu'
Un azzurro lungo un sogno che mi ha fatto vivere
quanto tempo avrai bisogno volera' da me a te
Tutto l'azzurro sia su di te piu' luce di un gioiello
piu' pace di un ruscello dove piu' azzurro e'
In un giorno santo in un canto che
come un vecchio incanto parli di me quando non c'e' vento
e piu' lento e' tutto il resto e sento te
Un azzurro lungo un sogno che mi ha fatto vivere
quando un tempo avrai bisogno volera' da me a te
Quell'azzurro lungo un sogno volera' da me a te
La prima era solo un suono
suono lontano suono di naso e metallo
fragore di treno sugli scambi
telegrafo che scarica sillabe incomprensibili
il frusciare di una manopola che insegue una frequenza
cinema muto al contrario dove c'è solo la voce
voce di un al di là senza forma che quella voce lascia decantare
senza che tu sappia cosa siano queste emozioni
né che faccia abbiano nomi che le strappano dal
cuore come spine dai piedi
e bruciano la pelle in una chimica sconosciuta
che attraversa la schiena e fa stringere i pugni
lui ti guarda ma non spiega
porta l'indice alle labbra e ti chiede di aspettare
e finalmente salta
ti passa una mano tra i capelli e ridete insieme
lui contento per qualcosa che non sai
tu a deglutire l'amaro che lascia capire
che nello stesso sogno è dura stare insieme
la seconda era erba e gesso
nebbia di gambe e vapori di fiato
tra braghe lunghe e scarpe pesanti
a insegiore lingue di cuoio cucite a sfera
dietro un vetro così convesso
che era come guardare il mondo da uno spioncino
un mondo dal quale separava un oceano
ma che quel cubo rendeva così vicino
che bastava allungare un dito per poterlo toccare
erba e gesso
in un paese che si è appena svegliato
ma non ha ancora realizzato
se quello che ha passato è davvero passato
nero come il lutto di Roma città aperta
bianco come il punto interrogativo
che una mano incerta traccia sul foglio senza righe
di un futuro che si sa solo cosa non dovrà mai più essere
nello schermo nani e giganti
giganti e nani a corrersi incontro
abbracciarsi e liberare le mani
sotto milioni di facce che ondeggiano come spighe di grano
accarezzate dal soffio di un'unica emozione
anime mai viste che siedono accanto e si tengono per mano
la prima vertigine confonde, toglie il fiato
ha il nome di un satellite che con il suo ago cuce distanze siderali
e ci fa stare una notte intera sull'orlo di un precipizio
silenzio di un urlo a trattenere il fiato e sperare
che dopo essere caduti tre volte nella polvere
si torni ancora una volta sull'altare
poi trovarsi a cantare con la voce di un miliardo di persone
e finalmente una estate
l'erba diventa verde e il gesso bianco e le maglie a colori
sembra di essere tornati a lascio o raddoppio
la gente fa ressa ai tavolini dei bar
a seguire la prima volta dei cinque cerchi senza gli americani
con la memoria ancora illuminata dalla scia della cometa di Baies
ma i pensieri già in fuga solitaria
per capire se la Spagna sarebbe stata Messico o Corea
la terza è la più forte
porta il nome di Pablito e avrà per sempre la faccia di Marco al Bernabéu
una corsa pazza e un grido che hanno fatto il giro
del mondo nei telegiornali
sulle copertine di tabloid e quotidiani
e ancora vibrano dentro nei mille come eravamo
ai quali ancora oggi ci teniamo aggrappati
e ancora una volta giornali a mezzanotte
e partite nelle fontane e tutte le auto che diventano decappottabili
migliaia amici sconosciuti dietro un pallone sparato in cielo
per tornare a casa e buttare la testa sotto l'acqua ghiacciata della vita
un po' perché il risveglio non uccida
ma soprattutto perché la prossima possa essere
ancora una prima volta
e ci siano facce e nomi da strappare dal cuore come spine dai piedi
l'ultima è Roberto che spara troppo alto alla lotteria dei rigori
sembra ieri ma ne è passato del tempo e il conto ormai segna cento
a pensarlo così in ginocchio sul dischetto
sotto lo sguardo da marmo greco dei compagni sequestrati a centro campo
capisci che la vita scorre in gran parte prima del calcio di rigore
e che la distanza che ti separa dalle cose è quella
c'è sempre uno che fischia
e un altro ti fissa con occhi di lama
la cosa più difficile è capire che il senso non sta
nel buttarla dentro o fuori
ma nel prendere la rincorsa
e tirare
fammi tornare sull'asfalto amaro
sotto un sole che non da ombre
cartelle e cappotti a far da palo
e polvere e vento e sale
fino a quando fa scuro e non ci si vede più
e l'aria brucia in gola e fa tossire
ho ancora voglia di sentire una voce che chiama
e di capire che è ora di rientrare.
ANTES DE LA PATADA DEL PENALTI
by doremi
La primera vez era sólo un sonido,
sonido lejano, sonido de nariz y metal,
fragor de las agujas del tren,
telégrafo que descarga sílabas incomprensibles
en el repicar de manopla que sigue una frecuencia.
Al contrario del cine mudo donde hay sólo una voz,
voz de un más allá sin formas que esa voz deja decantar,
sin tú saber lo que son esas emociones
ni qué cara tienen los nombres que las arrancan del corazón como espinas
de los pies.
Y queman la piel en una química desconocida
que atraviesa la espalda y hace apretar los puños.
Él te mira, pero no explica,
lleva su índice a los labios y te pide esperar.
Y finalmente salta.
Te pasa una mano por el pelo y reís juntos.
Él, contento por algo que no sabes,
tú, deglutiendo lo amargo que deja entender,
de que en el mismo sueño es difícil estar juntos.
La segunda vez era hierba y tiza,
niebla de piernas y vapores de aliento,
entre largos calzones y pesadas zapatillas
siguiendo tiras de cuero cosidas como una esfera
tras un cristal algo convexo que era como mirar el mundo desde una mirilla.
Un mundo del cual nos separaba un océano,
pero que en aquella caja resultaba tan cercano
que parecía que con alargar un dedo podías tocarlo.
Hierba y tiza en un pueblo que apenas acaba de levantarse,
pero todavía no ha analizado si lo que ha pasado ha realmente pasado.
Negro como el luto de Roma ciudad abierta,
blanco como el signo de interrogación que una mano incierta
traza en un folio sin rayas
de un futuro que se sabe sólo lo que no deberá nunca pasar más.
En la pantalla enanos y gigantes,
gigantes y enanos corriendo a su encuentro,
abrazándose y alzando las manos
bajo millones de caras que ondean como espigas de grano,
acariciadas por el soplo de una única emoción.
Almas jamás vistas que se sientan una al lado de la otra y se sienten cercanas.
La primera sacudida confunde, corta la respiración
tiene el nombre de un satélite que con su aguja cose distancias siderales
y nos hace estar una noche entera al borde del precipicio,
silencio de un grito que hace contener la respiración,
y esperar que después de caer tres veces en el polvo
se vuelva otra vez a subir al altar.
Luego encontrarse cantando con las voces de millones de personas.
Y finalmente un verano la hierba se vuelve verde,
la tiza blanca y las camisetas de colores
parece haberse vuelto al "abandono o doblo".
La gente se amontona en las mesas de los bares
para seguir por vez primera los 5 aros sin los americanos,
con la memoria aún iluminada por la estela de los cometas de Baires
pero ya haciendo cábalas para saber si toca España,
México o Corea.
La tercera vez es la más fuerte, lleva el nombre de Pablito
y tendrá para siempre la cara de Marco en el Bernabéu.
Una carrera loca y un grito que han dado la vuelta al mundo
en los telediarios y en las portadas de tabloides y periódicos
y que aún vibran dentro
de los mil “Como éramos” a los que todavía hoy
estamos abrazados.
Y una vez más periódicos de medianoche
y partidos en las fuentes y todos los coches descapotables.
Y a millares, amigos y desconocidos, tras un balón disparado al cielo
para luego volver a casa y meter la cabeza bajo el agua helada de la vida,
un poco porque el despertar no nos mate
pero sobre todo porque la próxima pueda ser aún una primera vez
y haya caras y nombres que te arranquen emociones del corazón como espinas de
los pies.
La última vez es Roberto, que dispara demasiado alto en la
lotería de los penaltis.
Parece ayer, pero ha pasado tiempo y la cuenta señala cien años.
Recordándolo así de rodillas en el círculo
bajo la mirada de mármol griego de los compañeros secuestrados en el centro del
campo
comprendes que la vida pasa en gran parte antes de esa patada del penalti
y que la distancia que te separa de las cosas es ésa:
hay siempre uno que pita y otro que te mira con ojos de acero
y la cosa más difícil es comprender que el sentido no está en lanzarla dentro o
fuera
sino en tomar carrerilla
y tirar.
Hazme volver al asfalto amargo bajo un sol que no da sombra,
carteles y abrigos haciendo de comparsa, y polvo y viento y sal,
hasta que se hace oscuro y no se ve ya nada
y el aire quema en la garganta y hace toser.
Tengo aún deseo de sentir una voz que llama
y comprender que es hora de volver a casa.
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